Come si fa a vincere un mondiale al secondo anno in MotoGP, partendo da totale outsider e in sella a una moto che non trionfava dai tempi di Kenny Roberts Jr? In questa intervista l’abbiamo chiesto a chi l’ha appena fatto: il ventitreenne talento spagnolo Joan Mir
Testo: A. Wheeler Foto: Milagro / Monster Energy
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Non c’è dubbio che il mondiale MotoGP 2020 sia stato tra i più anomali della storia del campionato. Iniziato in ritardo a causa dell’emergenza Covid, si è disputato su un calendario rivoluzionato, compresso e con varie gare doppie sulla stessa pista. Come se non bastasse, il dominatore annunciato, Marc Marquez, togliendosi subito dai giochi con l’infortunio che gli ha fatto saltare tutta la stagione, ha aperto nuovi scenari. Improvvisamente, sette-otto piloti si sono trovati a puntare al mondiale, sapendo di non dover solo lottare contro gli avversari in pista, ma anche contro la minaccia di una possibile positività al virus.
Una situazione a dir poco complessa, nella quale a emergere è stato un giovane spagnolo, Joan Mir, al suo secondo anno in MotoGP. Un pilota su cui ben pochi a inizio anno avrebbero scommesso, ma che gara dopo gara, con una costanza di rendimento che nessun altro ha avuto, si è ritrovato quasi naturalmente in vetta al mondiale, conquistando al momento giusto il primo GP nella massima categoria e, di fatto, compiendo il passo decisivo per il trionfo finale, a vent’anni di distanza dall’ultimo successo Suzuki, con Kenny Roberts Jr.
Ma chi è questo 23enne educato, tranquillo e sorridente, nato a Maiorca, entrato nel circus del Motomondiale nel 2016, campione del mondo Moto3 nel 2017 (con 10 gare vinte), e debuttante in MotoGP nel 2019 con la Suzuki ufficiale dopo solo un anno in Moto2? In questa intervista, Joan Mir ci ha raccontato qualcosa in più di lui, della sua stagione, e di quegli incredibili giorni che hanno preceduto il weekend di Valencia in cui ha vinto il Mondiale.
Sette notti e sette giorni
Iniziamo dalla fine. Sette notti e sette giorni hanno separato Joan Mir dal pomeriggio della sua prima vittoria in MotoGP – l’8 novembre 2020 a Valencia – alla domenica successiva, sulla stessa pista, dove lo spagnolo è stato incoronato Campione del Mondo. Come ha affrontato il giovane maiorchino l’appuntamento più importante della sua carriera? Come visualizzare una settimana così speciale che lo ha portato alla realizzazione del sogno di una vita?
“Stranamente non ero in ansia. O quantomeno, non più del solito. Ma ovviamente non è stata una settimana come tutte le altre. Mettiamola così: per tutta la settimana ogni mia cellula è stata focalizzata su un solo obiettivo – fare tutto bene per realizzare il mio sogno già domenica a Valencia, senza rimandare al round finale di Portimao”, confessa Mir, sorridendo e confermando la sua serenità interiore.
“Il fatto che di lì a poco sarei potuto diventare campione del mondo MotoGP non è stata un’ossessione – non lo è stata in nessun momento durante la settimana. Ma ovviamente è stato un pensiero costante, e sapevo che avrei dovuto fare tutto alla perfezione per chiudere il campionato già nel secondo GP di Valencia. È una pista che conosco e che mi piace, mentre a Portimao le cose si sarebbero potute complicare. Senza contare che oltre alla competizione in pista, quest’anno c’era un’altra battaglia in corso, con un rivale invisibile, il Coronavirus. È una cosa che ti prosciuga molte energie, anche solo per il timore di rimanere contagiato pur prendendo tutte le precauzioni possibili. Anche per questo volevo chiudere i conti già in Spagna.”
Il weekend di gara
La preparazione al weekend di gara, invece, è stata diversa dal solito?
“Direi di no. Una cosa che mi sono ripetuto tantissime volte durante la settimana è che per vincere il titolo non avrei dovuto fare nulla di diverso da quello che avevo fatto fino ad allora. Questo, quantomeno, era il piano. Alla fine, in realtà, anche se fai tutto come sai, salta fuori qualche imprevisto a rovinare i piani, e quindi devi improvvisare. Ricordo cosa mi ci era voluto per vincere il titolo Moto3 nel 2017. In Giappone avevo avuto un primo match-ball, ma le cose non erano andate secondo le previsioni e avevo perso l’occasione, ritrovandomi in una situazione molto delicata. Non volevo che succedesse ancora… Diciamo che stavolta, con un po’ di esperienza in più, ho affrontato la settimana facendo attenzione a ogni minimo particolare per cercare di azzerare qualsiasi variabile. Ed è andato tutto come avrei voluto.”
La pressione positiva
Chi ha seguito da vicino Mir nei giorni precedenti il secondo GP di Valencia, assicura che non ha mai dato l’impressione di subire la pressione.
“Il nostro mantra – mio e di tutto il team – è stato: ‘dobbiamo curare al massimo ogni dettaglio’. Ma sapevamo che se avessimo continuato a fare tutto come avevamo fatto fino ad allora, non avremmo dovuto preoccuparci. La serenità interiore ci veniva dalla consapevolezza che ok, se alla fine avessimo vinto sarebbe stato fantastico… Ma se anche non ce l’avessimo fatta, sarebbe stata comunque una stagione eccezionale, per me e per tutto il team.”
“La pressione? Di sicuro un po’ l’ho sentita, ma nulla più di quello a cui sono abituato. Credo che la pressione ‘positiva’ sia una componente fondamentale nella vita di un atleta professionista, non solo durante un weekend di gara. È quella che ti spinge a essere sempre sul pezzo, che ti motiva ad allenarti al massimo e rimanere concentrato sull’obiettivo, evitando le distrazioni. La vera pressione, quella che ti fa sentire a disagio, è un’altra: penso a quei genitori che faticano a portare a casa un salario dignitoso nella situazione economica derivata dalla pandemia, o alla paura di chi è in ospedale a lottare con il Covid. Cosa volete che sia la mia pressione a confronto con quella di chi ha questi problemi?”
L’infanzia e l’incontro con Chicho Lorenzo
Classe 1997, Joan Mir è nato a Palma di Maiorca da una famiglia normale: suo padre Juan aveva un negozio di skateboard e tavole da surf in città, mentre sua madre Ana era una designer di interni. Joan trascorse l’infanzia come un ragazzo californiano a godersi il sole, il mare e le tavole, e sebbene i suoi zii fossero appassionati di motori, fu solo all’età di cinque anni che salì per la prima volta su una moto, nello specifico sulla minimoto con cui suo papà andava a correre nei parcheggi con gli amici – e fu amore immediato.
Pare che il giovane Mir si divertisse parecchio, ma la vera svolta del suo destino avvenne a seguito dell’incontro con Chicho Lorenzo, il padre di Jorge Lorenzo, titolare di una scuola per piloti sull’isola. E, come nelle miglior favole, fu tutto molto casuale. “Un giorno Joan Perellò [cugino di Mir, che poi avrebbe corso nel mondiale 125 – n.d.r.] mi propose di andare a vederlo allenarsi alla scuola di Chicho Lorenzo e finì che Chicho mi chiese se volessi provare: mi diede una tuta, mi procurò un casco, e siccome non c’erano guanti della mia misura, me ne diede un paio da portiere di calcio! Provai la moto di mio cugino e dopo avermi visto, Chicho mi propose di iniziare ad allenarmi pure io alla sua scuola. Ovviamente risposi di sì e… da lì è cominciato tutto.”
All’inizio era solo un gioco
In realtà, pur mostrando un gran talento, Mir non sembrava avere ancora la determinazione per sopportare la dura disciplina richiesta dalla scuola di Chicho. Mentre gli altri ragazzi prendevano sul serio il fatto che si stavano allenando per diventare piloti professionisti, Joan aveva altro per la testa. “Mi piaceva guidare ma non pensavo ancora di diventare un pilota da mondiale, per cui all’inizio non davo troppo peso alla scuola. La vedevo più come un gioco, e quando salivo in moto mi interessava semplicemente divertirmi”, dice Joan. Alla fine l’esperienza alla scuola di Chicho durò due anni, ovvero finché Mir non chiese alla sua famiglia di procurargli un personal trainer: voleva qualcosa di più, qualcosa di diverso. Siamo nel 2009 e Joan Mir, ora, aveva un riferimento, un idolo: Valentino Rossi.
Le cose diventano serie…
Supportato da Dani Vadillo, un amico di famiglia e rappresentante della Federazione Motociclistica delle Baleari, Joan iniziò a correre nel campionato locale prima di gareggiare nel CEV. “Lì ho cominciato a correre ‘seriamente’. Nel senso che non era più un gioco: sapevo che se non fossi riuscito a vincere, non avrei ottenuto una sponsorizzazione per le 125 l’anno seguente, e tutto sarebbe finito.”
“Mio padre non poteva permettersi un investimento di 100 o 200 mila euro per continuare a farmi gareggiare”, confessa Mir, “quella era una pressione, non ora. Quello è stato anche il momento in cui ho imparato ad adattarmi velocemente a una nuova moto. Ogni anno me ne trovavo una diversa, ma non avevo scelta, e se non avessi vinto, per me sarebbe finita. A pensarci, nella mia carriera non avevo mai guidato la stessa moto per due stagioni di seguito e credo che questo mi abbia aiutato a crescere. Quest’anno in Suzuki MotoGP è stata la prima volta in cui non ho dovuto ricominciare tutto con una nuova moto, e direi che è stato un bel vantaggio.”
Il pilota della porta accanto
Guardando indietro nel tempo, quanto è cambiato Mir dal ragazzino che veniva incoronato Campione del Mondo Moto3 a Phillip Island nel 2017? “Pensando al 2017, vedo un ragazzino che ottiene quello per cui aveva lavorato per anni, e credo di non essere cambiato. Anzi, penso di essere lo stesso ragazzino pure oggi. Avevo meno esperienza, ma gli stessi sogni, gli stessi valori”, sorride Joan, con un sentimento che è una dolce combinazione di timidezza e tenerezza nei confronti del ragazzo di 20 anni che mai si sarebbe immaginato di vincere, solo tre anni più tardi, il titolo mondiale MotoGp.
Come si descriverebbe Joan Mir?
“Sono una persona calma e sincera che ama essere sé stessa. Non mi piacciono quelli che cercano di dare un’immagine artificiale di sé, che cercano di apparire quello che non sono. Mi considero una persona abbastanza normale, che si gode quello che fa. Ok, correre nel mondiale non è un lavoro normale, tutto quello che gira attorno alla MotoGP non è normale: i viaggi, i media, la pressione. Lì non mi sento ‘normale’. Ma smessi i panni del pilota mi vedo semplicemente come una persona che va lavorare – un lavoro fantastico, certo… – e poi se ne torna a casa dopo aver fatto il suo mestiere.”
“Cosa faccio fuori pista? Oh, niente di particolarmente mondano o eccitante…” Joan ride. “Mi piace passare il tempo con la mia ragazza Alejandra e i miei tre cani, e poi mi alleno parecchio. Vivendo ad Andorra, per me è facile: vado in palestra, faccio uscite in montagna e mi alleno in bicicletta. Non mi piace tanto fare serate per discoteche o ristoranti. Preferisco stare a casa e guardare la TV con Alejandra. Ho una stretta cerchia di amici e per me la famiglia viene prima di tutto.”
Mir il perfezionista
Si dice che Mir sia uno molto preciso in quello che fa.
“Sì è vero. Per dire, anche a casa mi piace l’ordine: tutto deve essere ‘perfetto’. Ma non fraintendetemi: io non mi vedo per niente perfetto. Sono un gran lavoratore e piuttosto sono un perfezionista per quanto riguarda me stesso. Ma mi considero una persona abbastanza umile, a cui piace ascoltare gli altri, soprattutto quelli che ne sanno più di me. Credo che la mia capacità di ascoltare e imparare sia alla base del successo che ho ottenuto finora. Del resto sono ancora giovane, ho tanto da imparare, ma penso di affrontare la vita, le cose, correttamente.”
E se lo dice il ‘Dottore’…
In effetti ciò che colpisce di Joan Mir è l’impressione di maturità che trasmette quando gli si parla. E anche i suoi colleghi lo vedono come uno coi piedi molto per terra per la sua età. Il primo ad affermarlo, addirittura, è sua maestà Valentino Rossi: “Joan Mir è un talento incredibile e per me è più maturo ed esperto di quanto dovrebbe essere, considerando che questa è stata solo la sua quinta stagione nei GP, la seconda in MotoGP con un solo anno in Moto2.”
“Nessuno aveva scommesso su di lui a inizio 2020, ma tutti avevamo notato quanto fosse migliorato nelle ultime gare del 2019, la sua stagione da rookie, e aveva mostrato un gran ritmo anche nei test invernali. Se ha vinto, se lo è meritato perché è stato il più costante. È vero che finora ha vinto solo una gara in MotoGP, ma molto probabilmente lo avrebbe fatto anche in Austria, se la gara non fosse stata interrotta a causa del grosso incidente che ci ha visti coinvolti. Quindi sì, Joan Mir è ‘la sorpresa’ del 2020, ma per me si merita al 100% il suo successo.”
L’ammirazione di Rossi è ovviamente più che reciproca. “Ammiro profondamente Valentino Rossi, per tutto quello che fa e ha fatto dentro e fuori dalle piste. Lui è sempre stato un modello per me, anche se non cerco di imitarlo – non avrebbe senso. Io ho la mia personalità e lui la sua. Lui è un mito, io continuo a essere me stesso, anche dopo la mia prima vittoria in MotoGP.”
Aggressivo ma fluido
“Un giorno Kevin Schwantz mi ha detto: ‘mi piace il tuo stile di guida aggressivo, ma con le MotoGP dovresti provare a essere più fluido’. Ho ascoltato il suo consiglio e… beh aveva ragione!”, confessa Mir. “Sono sempre stato un grande staccatore, fa parte del mio stile, ma lo scorso anno in effetti non stava dando i suoi frutti con la Suzuki. Dovevo essere più tranquillo. Sai cosa? È più facile diventare più fluidi quando si è aggressivi, che viceversa. Così ho studiato, e ho imparato a guidare in modo aggressivo… ma fluido. Come dice il mio team manager Davide Brivio, è come suonare un violino: servono decisione e precisione, ma fondamentale è la ricerca del ritmo, del ‘flusso’”.
Il rapporto con Davide Brivio
La figura di Davide Brivio sembra molto importante per Joan Mir. Di sicuro lo è diventata da quando, due anni fa, il giovane spagnolo si è ritrovato sul tavolo due proposte tra cui scegliere per entrare in MotoGP: una di Honda, l’altra di Suzuki. In Honda si sarebbe unito al campione del mondo in carica Marc Marquez, su una moto potenzialmente vincente, ma con la pressione di essere costantemente paragonato al suo stellare connazionale.
Dall’altra Suzuki: un’atmosfera molto più familiare, con un progetto in corso che avrebbe potuto evolversi con lui, ma pur sempre una scommessa, considerando che la Suzuki non era una moto vincente. Appena si sono conosciuti, però, pare sia stato amore a prima vista, come ha dichiarato lo stesso Brivio: “Ho creduto nel talento di Mir, ma quello che mi è piaciuto di più di lui è che ha avuto il coraggio di scegliere Suzuki declinando l’offerta di Honda – e sappiamo tutti cosa significa. Ci siamo piaciuti a vicenda ed è stato un matrimonio perfetto.”
La curva di crescita
“Ripensandoci, devo ammettere che sono stato coraggioso a prendere una decisione del genere, ma guardami ora… Parlando coi ragazzi di Suzuki avevo capito che con loro avrei potuto vincere, quantomeno questo era l’obiettivo. Ma onestamente non mi aspettavo di riuscirci già al secondo anno. Quello che mi piace di Suzuki è che è come una famiglia. Vado molto d’accordo con la mia squadra e sento che tutti vogliono il meglio, sia per me, sia per marchio”.
“La stagione 2019 è stata una preparazione. Nel 2020 ho adattato il mio stile di guida e dopo una partenza difficile (tre zeri e un 5° posto nelle prime quattro gare – NdR), in Austria ho fatto il cambio di passo. Lì ho iniziato a essere davvero competitivo, a lottare per la vittoria, ma è solo dopo Misano e Barcellona che ho capito di aver trovato quel feeling che cercavo con la moto. È stato il momento in cui ho iniziato a pensare che forse avrei potuto puntare al titolo. Non era solo la classifica: mi sentivo proprio bene sulla moto.”
Gran finale
“Mi hanno detto che in griglia di partenza a Valencia, la domenica in cui mi sono giocato il mondiale, sembravo calmo e senza pressione. Dentro di me però non ero né calmo, né senza pressione! Durante la settimana non l’avevo sentita, ma una volta in griglia la tensione è salita a massimo. Ero super nervoso, perché conquistare il titolo è qualcosa per cui avevo lottato per tutta la vita, da quando avevo 10 anni.”
“C’è da dire che è stato anche il culmine di un anno davvero difficile, in cui oltre ai weekend in pista abbiamo dovuto gestire anche ogni nostra azione a casa, per essere sicuri di non prendere il virus. Personalmente sono arrivato a introdurre un protocollo molto rigoroso nella mia routine quotidiana, più severo di quello della MotoGP, perché volevo ridurre al minimo qualsiasi possibilità di contagio. Il Covid è stato il mio primo rivale quest’anno, e questo titolo è dedicato a tutti coloro che hanno perso un familiare o un amico nella pandemia. Ci ho pensato spesso durante la stagione.”
“Sul traguardo ho iniziato a piangere e non riuscivo a smettere. È stato un misto di lacrime e risate, come per liberare il carico di tutti i sacrifici e duro lavoro fatti da me e dalla mia famiglia in questi anni per arrivare dove siamo adesso. Campione del Mondo. Faccio ancora fatica a rendermene conto.”
Uno sguardo verso il futuro
Per la cronaca, Joan Mir è il primo pilota Suzuki dal 2000 a vincere la corona della classe regina e si unisce a una lista d’élite con i leggendari Barry Sheene, Marco Luchinelli, Franco Uncini, Kevin Schwantz e Kenny Roberts Jr. Per lo spagnolo è stata una missione compiuta. E ora? “Voglio vincere almeno un paio di titoli mondiali e poi ritirarmi quando mi renderò conto di non essere più abbastanza veloce. Vorrei tornare a vivere in riva al mare, a fare una vita semplice. Mi piacerebbe avere una barca, navigare e imparare a pescare.”
Un campione come lui, col suo status avrebbe potuto pensare a ville di lusso sull’isola, belle macchine o vacanze in destinazioni esotiche. Joan Mir sogna la vela e la pesca, come un qualsiasi nativo dell’isola di Maiorca. Come non provare affetto per un ragazzo così?